Aprile 22, 2020

Covid, si aspetta il fatidico vaccino ma si snobbano le possibili cure: intervista al prof. Giacomo Rossi

Mentre vari esponenti del governo continuano ad aspettare il fatidico vaccino come sorta di panacea contro il coronavirus, continuano ad arrivare gli importanti risultati che alcuni medici e professori italiani stanno ottenendo con alcuni approcci teraupetici. Potremmo ad esempio ringraziare i nostri amati gatti se l’approccio curativo previsto dal protocollo del medico veterinario Giacomo Rossi confermerà gli incoraggianti risultati emersi in prima battuta. Partendo dal Fecov, la corrispondente patologia felina originata dal Coronavirus, il prof. Rossi ed il suo team dell’Università di Camerino sono riusciti ad arrivare a conclusioni piuttosto incoraggianti. Mentre gli Stati Uniti si sono subito mostrati interessati a questo protocollo, l’Italia ancora non si è mossa.

Quando sono iniziati i suoi studi sul Covid-19?

Da circa due anni mi sto interessando della risposta immunitaria del gatto affetto da FeCov, il coronavirus felino, con particolare riguardo alla risposta mediata dai macrofagi, le cellule che sono deputate a “mangiare” gli agenti patogeni che ci infettano. Vede, nel gatto con FeCoV ci siamo accorti che se la funzione di queste cellule non è perfetta o è incompleta, il virus  può attraversare l’intestino, sede dove normalmente risiede, generalizzare nell’organismo e causare una grave malattia, per la quale con c’è vaccino nè terapia specifica ed il cui esito è praticamente quasi sempre la morte dell’animale infetto.  Bene studiando il meccanismo con cui il virus FeCoV entra nelle cellule, appena sono stati resi noti i risultati della struttura del recettore Covid-19 dai colleghi Cinesi, ho fatto le debite comparazioni nella struttura proteica ed aminoacidica ed ho visto che il coromavirus Covid-19 differisce da altri coronavirus, avendo vari siti di glicosilazione in più. Questi siti sono quelli i cui alcuni zuccheri semplici si legano all’amminoacido Asparagina terminale di una proteina trans-membrana. Ho pensato quindi che questa differenza potesse essere alla base della maggiore virulenza del virus. Ho anche pensato che, eliminando questi siti, si possa ridurre in maniera veramente importante il legame del coronavirus Covid-19 alle cellule dell’ospite, e quindi in pratica ridurre in maniera sensibile l’impatto dell’infezione e dei segni clinici di malattia.

Abbiamo sentito negli ultimi due mesi dagli esperti varie visioni su Covid. Lei che profilo ci traccia del virus?

Da quello che ho potuto osservare e leggere dalle esperienze di tanti colleghi a livello mondiale circa questo virus, posso dire che mi sono fatto un’idea abbastanza precisa di questo virus: a) si tratta di un virus che ha una elevata tendenza alla mutazione, come del resto fanno un po’ tutti i coronavirus, mutando la sua attività patogenetica e la sua sensibilità ai vari farmaci che si utilizzano per contenerlo quali gli inibitori della proteasi virale (Pro) e della polimerasi virale (POL); b) è un virus molto poco “immunogeno”, avendo i principali siti antigenici “nascosti” in aree dello spike virale molto poco esposti al nostro sistema immunitario….questo fa sì che molti individui non sviluppino anticorpi o ne sviluppino verso antigeni non funzionali a bloccare il virus, quindi non “protettivi”; d) si tratta di un virus che utilizzando più vie di trasmissione (ci siamo molto concentrati sulla via di eliminazione respiratoria-aerosolica, ma questo virus viene rilasciato in grande quantità con urine, feci e presumo anche liquido seminale dal momento che una grande quantità di recettori e di proteasi cellulari atte a “attivare il virus” sono presenti negli organi genitali maschili!). Mi sono quindi fatto l’idea che questa infezione ce la porteremo avanti un bel po’, sottotraccia, salvo vederla ri-esplodere in condizioni di temperatura e ambientali idonee a tutte le forme respiratorie o parainfluenzali  fintanto che non avremo trovato un’arma per una lotta efficace  all’infezione o alla sua prevenzione!”

L’infettività sui gatti quanto è diffusa?

Colgo al volo l’opportunità di questa domanda per chiarire subito una cosa fondamentale: l’infettività dei gatti la possiamo riferire solo e soltanto al FCoV, ovvero al coronavirus felino!  I gatti infatti rappresentano solo in modo sporadico e ancora tutto da approfondire una possibile specie lievemente “permissiva” alla replicazione virale del Covid-19! I pochi lavori scientifici in proposito, mi riferisco ai casi di positività al tampone riscontrati in feci, vomito e prime vie respiratorie di alcuni gatti conviventi con proprietari ammalati e sintomatici, così come gli esperimenti di infezione sperimentale effettuati in Cina, si evidenzia come  il gatto possa essere leggermente “permissivo” alla replicazione di questo virus, solo se esposto a cariche infettanti altissime (come è stato effettuato negli esperimenti cinesi…) che sono impensabili anche nel più contaminato ambiente domestico! Circa la positività riscontrata in casi “spontanei”, questa ci dice semplicemente che il virus è passato dal proprietario al gatto (o al cane) e che questo lo ha “mantenuto” per alcuni giorni ancora potenzialmente “attivo” , ma non che su di esso il virus si è replicato potenziando la sua infettività! In pratica cani e gatti rappresentano dei “vettori passivi”, come lo sono gli oggetti di uso domestico o le superfici che vengono contaminate dai pazienti umani, piuttosto che dei “recettori” attivi e diffusivi dell’infezione!

Quali sono i farmaci che avete testato e che risultati hanno ottenuto?

I tre farmaci che compongono il nostro protocollo, e che sono in questio giorni allo studio clinico, sono la L-Asparaginasi, la Clorochina e l’eparina a basso peso molecolare. La L-Asparaginasi è un chemioterapico che determina una deplezione cellulare dell’aminoacido Asparagina, fondamentale per l’attacco sulla superficie cellulare di alcuni zuccheri semplici che rappresentano altrettanti siti di attacco virale. La Clorochina altera il pH delle vescicole endosomiali all’interno delle quali il virus viene veicolato all’interno della cellula, riducendo ulteriormente la sopravvivenza. Infine l’uso di eparina a basso peso molecolare è veramente utile già in prima fase di ospedalizzazione, per prevenire la patologia microtrombotica a carico del paziente Covid-19 ospedalizzato, nonché per il suo interessantissimo effetto anti-infiammatorio, affatto trascurabile, che può contribuire ulteriormente a preservare l’apparato cardiovascolare e l’integrità dei differenti parenchimi del paziente!

I prossimi step quali saranno?

Come ogni protocollo terapeutico, anche questo che proponiamo deve essere validato scientificamente. Ovviamente il fatto che si usino tre farmaci di vecchia conoscenza (Clorochina , Eparina ed L-Asparaginasi) facilita i passaggi di approvazione in modo Off Label del protocollo medesimo……..ad ogni modo occorrerà il reclutamento di un congruo numero di pazienti Covid-19 che verranno trattati e che poi saranno valutati in base a parametri clinici ed ematologici /strumentali per quanto attiene ai tempi di recupero e al ritorno ad una condizione di normalità.

Oltre all’interesse americano, l’Italia si è mossa per sperimentare questo tipo di cure?

Ad oggi so dal Dottor Bellini, lo scienziato ricercatore ed imprenditore marchigiano che ha investito in quest’idea e che l’ha brevettata negli Stati uniti, che vari nosocomi italiani hanno richiesto una liberatoria per poter utilizzare il nostro protocollo in modalità off label anche nel Nostro Paese.

Un eventuale vaccino secondo lei sarebbe efficace a livello preventivo o come sostengono alcuni medici e virologi le mutazioni del virus non ci metterebbero al riparo neanche in questo caso?

Un vaccino, premesso che questo è effettivamente un virus che muta molto facilmente, ci potrebbe aiutare ad acquisire quella immunità di popolazione (o di “gregge” come tanto si è detto in questo giorni) che potrebbe aiutare a contenere infezioni e scoppio di nuovi focolai nel futuro……Ma anche io nutro dei dubbi su una rapida realizzazione del vaccino! Questo virus ci mostra costantemente una sua scarsa immunogenicità e soprattutto l’induzione di una risposta immunitaria molto flebile….non pare che, al momento,. ci siano prove che l’infezione induca una solida e duratura memoria immunologica…

Se trovassimo una cura per evitare gli effetti del virus su alcune categorie di persone, potremmo tornare ad una vita simile a quella precedente o dovremo arrenderci a scenari di distanziamenti e chiusure perenni?

Una cura potrebbe sicuramente farci affrontare con una maggiore serenità e sicurezza la fase 2 della pandemia….Come le dicevo questo virus è poco immunogeno, e la “serrata” generale ha preservato “indenne” dall’infezione ma ancora completamente recettiva al virus una elevatissima percentuale di italiani. L’assenza di un efficace presidio immunizzante o di un effetto “gregge” dell’immunità ci posso esporre potenzialmente ad una infezione di ritorno anche tremenda, forse grande quanto quella che abbiamo patito nei mesi scorsi!! Quindi stante questo stato e le armi terapeutiche che ad oggi abbiamo a disposizione, la fase 2 dovrà avvenire nel rispetto delle più rigide norme di auto-preservazione e di distanziamento sociale……è brutto a dirsi e a configurarlo…ma è così!